Autore: DOTT.SSA GIORGIA MARCHESI
Perché
facciamo così fatica a liberarci del superfluo?
C'è una scatola in fondo all'armadio. O forse è uno scaffale in garage, o l'intera soffitta. Non importa dove. Ciò che conta è il dialogo silenzioso che si scatena ogni volta che il tuo sguardo la incrocia. Una parte di te, la Voce della Ragione, dice con pragmatismo: “È solo una vecchia giacca, non la metti da dieci anni. Buttala”. Ma un'altra parte, il Sentimento del Cuore, si oppone con una forza inaspettata: “No. Non ancora. Ricordi come ti sentivi? Ricordi il giorno speciale in cui l'hai indossata?”.
Questa indecisione è una lotta interiore diffusa, intensificata dalla convivenza forzata con i nostri spazi imposta dalla pandemia. Ogni oggetto superfluo è diventato un coinquilino ingombrante. Questa battaglia, estesa oggi ai nostri cloud pieni di file digitali, ha poco a che fare con il disordine. Riguarda noi. Ogni oggetto che tratteniamo è un fossile di un'emozione, una reliquia della persona che siamo stati o che sognavamo di essere.
In più ogni oggetto in una casa può andare ad ostacolare o migliorare il flusso di energia vitale del luogo, facendo o meno beneficiare i suoi abitanti del flusso di energia che dovrebbe fluire come acqua in un fiume. L'accumulo di oggetti superflui erige dighe più o meno visibili. L'energia può rallentare, fermarsi e imputridire come in una palude. L'immagine è forte, ma offre l'idea di una energia morta (armadi stracolmi che ostruiscono la nostra capacità di accogliere il nuovo, cantine cantina colme di passato àncorano l'intera abitazione a ciò che è stato, impedendole di evolvere con noi). In questi spazi l'aria si fa pesante, i pensieri si possono aggrovigliare e la vitalità si può prosciugare.
Quando ti liberi lo spazio intorno a te stai rimuovendo un blocco e permetti all'energia vitale di tornare a scorrere, portando con sé chiarezza e potenziale. Il vuoto che lasci pulsa di nuova vita, pronto ad accogliere il futuro.
Cosa ci raccontiamo per non decidere? Il nostro cervello è un abile avvocato difensore dei nostri attaccamenti, capace di costruire argomentazioni logiche che mascherano paure profonde. I meccanismi di difesa seguono copioni precisi. Il primo è la proiezione ansiosa su un futuro incerto: la domanda “E se un giorno mi servisse?”, che trasforma un oggetto inutile in un’ancora di salvezza contro un’ipotetica catastrofe.
Il secondo, più sottile, è l'Effetto Endowment (o effetto dotazione). La nostra mente gonfia irrazionalmente il valore di un oggetto per il solo fatto che ci appartiene. Liberarsene è percepito come una perdita netta e dolorosa, un processo potenziato dalla nostra naturale avversione alla perdita, un principio psicologico per cui il dolore di perdere è quasi il doppio del piacere di guadagnare qualcosa di pari valore. Ogni oggetto, infine, è un’ancora emotiva. Tratteniamo la prova tangibile di un ricordo, di un'emozione, di una versione passata di noi che temiamo di dimenticare.
Secondo la psicologia del profondo, sono cardini della nostra identità. Quel paio di jeans di vent'anni fa rappresenta la giovinezza che temiamo di aver perso. Quei saggi mai letti incarnano l'ambizione di essere una persona che non siamo ancora diventati. Allo stesso modo, ciò che releghiamo in cantina, nel buio, è spesso una metafora della nostra Ombra junghiana: le parti di noi che reprimiamo. Aprire quelle scatole significa guardare in faccia ciò che abbiamo nascosto di noi, di un periodo, di una persona o di un luogo che non riusciamo a lasciare andare.
A un livello ancora più profondo, circondarci delle nostre cose è un fragile esorcismo contro la transitorietà. Sono la prova tangibile della nostra esistenza. Lasciarle andare è un piccolo assaggio della nostra mortalità. Questo impulso è rinforzato da un inconscio collettivo: l'eredità della scarsità dei nostri nonni, per cui buttare era un peccato, e il martellamento del consumismo, che ci ha insegnato a investire negli oggetti le nostre speranze di felicità.
E se non fossimo proprietari, ma solo custodi di passaggio? Per uscire da questa paralisi, dobbiamo cambiare radicalmente la domanda. Immaginiamo un albero in autunno. Non butta via le sue foglie, le restituisce. Le lascia andare con fiducia, permettendo loro di decomporsi e diventare humus, nutrimento per le sue stesse radici.
Se vogliamo concederci il lasciare andare, dobbiamo cambiare paradigma. Un oggetto che non usiamo più è un potenziale da liberare. Finché rimane chiuso in un armadio, è una promessa non mantenuta. La domanda non è più "Cosa perdo io?", ma "Che potenziale sto imprigionando in questo oggetto, trattenendolo dal suo viaggio?". Un libro sullo scaffale è silenzio; donato, diventa conoscenza. Un vestito nell'armadio è nostalgia; rivenduto o donato, diventa lo stile o il calore di un'altra persona. La difficoltà della separazione è il nostro rifiuto di partecipare alla danza del dare e ricevere.
Se vogliamo ripulire i nostri spazi, possiamo farlo onorando le nostre emozioni invece di combatterle.
Il Dialogo con l'Oggetto: Prendilo in mano. Chiedigli, anche ad alta voce: “Quale emozione custodisci per me? Di quale parte della mia vita sei il simbolo?”. Dare voce alla sua storia è il primo passo per integrare quell'emozione.
Il Rito della Restituzione: Invece di un gesto anonimo, crea un piccolo rito di passaggio. Ringrazialo per il suo servizio. Preparalo per il suo prossimo capitolo. Questo trasforma un atto di perdita in un gesto di generosità e chiusura.
La Scatola del Purgatorio: Per gli oggetti più difficili, usa una "scatola di transizione". Riponili lì, sigillala e scrivi una data a sei mesi nel futuro. Se in quel tempo non hai sentito il bisogno di aprirla, la separazione emotiva è già avvenuta.
Se il dialogo emotivo non basta, possiamo adottare tecniche più strutturate, simili a quelle usate in un percorso terapeutico. Si tratta di un allenamento mentale e comportamentale in due fasi.
Per esempio, l'idea di "tradire" una persona cara liberandoti di un suo regalo. Analizzala a fondo: il legame affettivo con tua madre risiede davvero in quell'oggetto o nel rapporto che avete costruito? L'amore è condizionato dal possesso di un suo dono? Disfarsi di un oggetto può coincidere con il preservare e onorare il ricordo in una forma più interiore e autentica? L'obiettivo è sviluppare flessibilità, la capacità di vedere la stessa situazione da angolazioni nuove e meno limitanti.
Ogni regalo e ogni eredità stipulano con noi un patto di lealtà non dichiarato. Quando accettiamo l'oggetto, diventiamo i custodi del gesto e dell'affetto che materializza. Il servizio di piatti della prozia o l'orologio del nonno sono ambasciatori del passato, monumenti fisici a un legame. Conservarli è il rituale che dice: "Una parte di te vive ancora qui". Disfarsene ci appare come una profonda slealtà, l'atto di interrompere una storia che dovevamo continuare. Siamo intrappolati tra la lealtà al passato, che chiede memoria, e quella al nostro presente, che esige spazio.
Un aiuto è considerare di non rompere il patto, ma ridefinirlo. La lealtà non è verso l'oggetto, ma verso la vita e l'amore che rappresenta. Il primo passo è separare mentalmente i due elementi. Quindi, con un atto di consapevolezza, si assorbe la storia e il significato dentro di sé. Onora l'oggetto un'ultima volta, ringrazialo per la sua missione di custode. Ora ha esaurito il suo compito. Il tesoro, il ricordo vivo, è al sicuro dentro di te. L'artefatto può andare. Liberando l'oggetto, onori la vita, che per sua natura non è stasi, ma flusso.
Liberare la nostra casa dagli oggetti superflui è un atto profondo di crescita psicologica. È smettere di essere i custodi di un museo dedicato al passato per diventare gli architetti di un laboratorio aperto al futuro. È un atto di fiducia: lasciare andare ciò che era per fare spazio a ciò che sarà.
Il nostro campo energetico si estende oltre la pelle e impregna gli oggetti che amiamo o che associamo a eventi cruciali. Un'emozione intensa – una gioia, un trauma, un lutto – imprime sull'oggetto una vibrazione specifica, una firma energetica.
Tenere vicino un oggetto legato a una sofferenza passata irradia costantemente quella stessa frequenza nel nostro spazio vitale. È un rumore di fondo che disturba il nostro benessere. Anche senza pensarci, il nostro corpo sottile lo percepisce, assorbe quell'influenza. Da qui possono nascere una serie di emozioni o sentimenti che inspiegabili: stanchezza cronica, una malinconia, la sensazione di allarme.
Il distacco fisico da questi oggetti opera una pulizia profonda nel nostro campo personale. Ritiri la tua energia dall'oggetto e recuperi quella che vi avevi depositato. Ristabilisci i tuoi confini. Riacquisti la tua sovranità energetica, scegliendo attivamente di quali vibrazioni nutrire la tua vita
Lasciare
andare significa creare lo spazio del vuoto, per crescere, cambiarsi.
Un oggetto, a pensarci bene, è il guscio vuoto di un paguro. Ci
attacchiamo alla sua forma perfetta, alla sua levigatezza familiare,
dimenticando che è la prova di una vita che è cresciuta oltre
di esso. Il vero tesoro non è il guscio che lasciamo sulla sabbia,
ma lo spazio nudo e vulnerabile che ci aiutiamo a cercare per
continuare a esistere. La paura non è di perdere il guscio, ma di
rimanere esposti, anche solo per un istante, prima di trovare il
prossimo.
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